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“KATOWICE??? Ma si può sapere che cosa ci vai a fare a Katowice? Non c’è niente di niente da vedere…perchè atterrare lì ?”
Questo, all’unisono totale, è ciò che mi hanno detto tutti coloro che hanno saputo la destinazione di questo viaggio. Tutti, assolutamente nessuno escluso. Addirittura la badante di mia nonna, che è polacca, mi ha detto testualmente: “Hai buttato i soldi; quella di Katowice è la zona più brutta del mio paese; ci sono solo fabbriche”.
Perfetto, dico io. Sono queste le sfide che mi piacciono di più: andare in posti in cui “pare non esserci nulla”. E aggiungo anche che ho prenotato lì ben 3 notti partendo addirittura da Bologna, zona che non è affatto quella in cui vivo. I motivi? Eccoli:
- Voli di andata e ritorno perfetti per le mie esigenze di giorni di ferie ed orari.
- Costo totale dei due voli sommati insieme: 19,80 euro. Per una cifra simile si può anche tentare un’avventura.
- Costo per raggiungere Bologna e poi tornare a casa: 2 euro totali col mio solito bus.
- Costo per arrivare e tornare dalla stazione centrale di Bologna all’aeroporto: 3,60 euro (più avanti spiegherò come fare, per chi decidesse di smettere di regalare quattrini all’Aerobus).
Per me sono tutti ottimi motivi per partire. Devo ammettere che, studiando a casa il percorso e come impiegare i giorni a disposizione, ho fatto un po’ di fatica a causa anche delle poche informazioni presenti su internet; questa regione pare che sia davvero considerata come poco turistica e ciò fa sì che moltissima gente sia sfiduciata all’idea di partire. Quello di Katowice è quindi un aeroporto usato prevalentemente nei giorni lavorativi della settimana per raggiungere, per esempio, la fabbrica della Fiat nella vicina cittadina di Tychy o altre realtà industriali; ma alla fine il risultato è stato comunque ottimo perchè il lavoro premia sempre. Si parte!
Venerdi 8 gennaio, fa un bel freddo anche se ci sono stati inverni decisamente peggiori. Mi trovo a Bologna dove ho trascorso la giornata (trovate il racconto nell’apposito post dedicato) perchè il volo di andata che mi porta dall’Italia fino alla regione dell’Alta Slesia decolla proprio dall’aeroporto Guglielmo Marconi. Massima puntualità per la compagnia Wizz Air ed arrivo a Katowice in perfetto orario. Lo scalo polacco dista circa una trentina di km dalla città alla quale viene associato e dove ho prenotato l’hotel; è già buio pesto e fuori c’è qualche spruzzo di neve, ma soprattutto noto nel parcheggio diverso ghiaccio sull’asfalto. Senza farmi prendere dal panico mi incontro col noleggiatore dell’auto (una sorta di “free-lance” col quale avevo appuntamento al bar degli arrivi), firmo il contratto e prendo possesso del veicolo. Lui è davanti a me, sale in macchina e con tutta la tranquillità del mondo fugge letteralmente via sgommando (o scivolando…) a più non posso nell’area parcheggio dell’aerostazione. Resto basito mentre lo guardo allontanasi per trenta secondi, poi realizzo che per lui queste condizioni meteo sono normali e quindi è tutto ok. Preparo il navigatore satellitare off-line, fedele compagno di viaggio, e parto con destinazione l’Hotel Silesian. Si tratta di un buon 4 stelle che all’interno ha anche un’area fitness con palestra e soprattutto piscina, sauna ed idromassaggio. La particolarità è che si possono scegliere due opzioni: la economy consente l’accesso all’area benessere col pagamento di un “gettone” giornaliero mentre la quality permette l’accesso libero a tale area a piacimento. La differenza di prezzo è ridicola (per fare mia la stanza in modalità b&b con aggiunta dell’opzione quality ho pagato circa 20 euro a notte), per cui ho pensato che sarebbe stato divino terminare le gelide giornate con un po’ di sano relax. Dopo circa 45 minuti in cui la prudenza è stata la padrona su quelle strade scarsamente illuminate e ghiacciate arrivo alla reception, prendo la stanza e sistemo il bagaglio; avrei dovuto “vivere” lì 3 giorni pieni…non era proprio una toccata e fuga di quelle in cui lascio tutto nel borsone prendendo di volta in volta solo quello che mi serve. Dimentico di dire che l’hotel si trova su quella che definirei come la “tangenziale” di Katowice; lo avevo scelto di proposito perchè la mia intenzione era quella di girare la regione in lungo ed in largo, per cui ho evitato un albergo in centro che mi avrebbe costretto tante volte a raggiungere la zona periferica. Ma non mi è andata poi tanto male: guardo dalla finestra ed a 300 metri vedo un centro commerciale con tanto di negozi di marchi molto conosciuti e, subito sotto, un benzinaio con annesso McDonald. Ovviamente in fase di prenotazione non lo sapevo e non ho avuto difficoltà ad accettare di buon grado tale opzione. E’ abbastanza tardi (circa le 22:00) quando decido di testare la wifi dell’hotel: davvero ottima! Ma ciò, in quel preciso momento, non è una cosa positiva. Sarei sicuramente rimasto al pc per chissà quanto tempo mentre al mattino successivo la sveglia sarebbe suonata molto presto.
9 gennaio: inizia ufficialmente l’esplorazione dell’Alta Slesia. Di buon’ora mi preparo con vestiti molto pesanti ed esco per tempo. La prima destinazione è la cittadina industriale di Zabrze; ci arrivo abbastanza agevolmente poichè le indicazioni stradali sono buone, il traffico è praticamente inesistente ed il navigatore non mi manda stranamente in qualche “sterrato” come spesso accade. Faccio un primo giro esplorativo con la macchina e vedo un cambio valute. Ero certo che in un paese come quello avrei trovato ciò che faceva al caso mio, ed infatti vedo un negozio/emporio che vende un po’ di tutto (dai computers alla tabaccheria varia) che cambia gli euro in zloty ad un tasso favorevolissimo. Anche questa volta la regola del “dove cambiare soldi” ha funzionato: evitare sempre i chioschi negli aeroporti e, se possibile, anche le città turistiche. Con un po’ di contanti in tasca mi metto a cercare l’obiettivo dell’arrivo a Zabrze; sapevo anche che non avrei trovato alcuna indicazione stradale e quell’aggeggio che avevo in mano mi indicava chiaramente che ero a destinazione, ma non vedevo niente. Stavo cercando una alta torre a forma di “estrattore” e, se fosse stata davvero lì non avrei potuto non vederla. Dopo un paio di giri a vuoto mi viene l’ispirazione di alzare la testa verso l’orizzionte e, a circa 500 metri di distanza, finalmente la vedo. Stando attento a neve e ghiaccio parcheggio la macchina e mi reco verso ciò che voglio visitare: si tratta della “Guido Mine” in inglese o “Kopalnia Guido” in lingua locale. E’ una importante miniera di carbone inattiva da molti anni e che viene usata oggi come punto di interesse per mostrare, a chi ne fosse interessato, di cosa vivevano gli abitanti della zona nei decenni passati. La particolarità della miniera è che è composta da due livelli: il primo si trova a 170 metri di profondità ed il secondo a ben 320 metri sotto terra. Si può visitare solo il meno profondo oppure tutti e due. Navigando il sito ufficiale mi aveva affascinato questa prospettiva, così ho effettuato la prenotazione on-line per le ore 9:00 del mattino; dopo le due ore previste nel sottosuolo avrei poi avuto tutto il resto della giornata per cambiare città. Mai scelta fu più felice: tanto per cambiare ero l’unico della lista per quel giorno e per quell’ora, quindi stava per avere inizio l’ennesima “visita privata” con mia somma gioia. Mi unisco alla guida dopo aver indossato il classico cappello da minatore e, uscito dall’ufficio, vengo accompagnato in un altro stabile lì vicino; qui è presente il tipico ascensore da miniera, molto grezzo e rudimentale come lo vediamo nei films; un assordante doppio rumore di campanelle mi distrugge le orecchie: è il segnale che informa i manovratori che possono chiudere il portello ed iniziare la discesa. Mi è stato spiegato che, agli inizi del XX secolo, senza corrente elettrica e con il buio più totale tranne qualche candela o torcia infuocata, la sicurezza delle persone che coabitavano quotidianamente con impianti e macchinari (tra i quali proprio l’ascensore) era garantita solo da quel suono assordante di campanelle; chi le suonava avvisava gli altri che si trovavano in zona che potevano fare o non fare determinate attività. Inizia la discesa, ripeto, proprio come in un film. L’emozione è alle stelle. Dopo un paio di minuti l’ascensore si ferma, arrivano altri due colpi delle immancabili campanelle e la porta si apre: quello che ho davanti agli occhi è il livello “-170”. Vedo un tunnel abbastanza largo, oggi illuminato da lampadine; al soffitto ci sono dei sostegni di legno per qualche decina di metri; erano stati messi appositamente in quel punto per evitare un possibile crollo. Ci tengo a precisare che si tratta di una miniera, non di una grotta. Non ci sono quindi nè stallattiti nè stallagmiti, nè tantomeno corsi d’acqua. In un ambiente di lavoro in cui si usavano picconi, escavatori e dinamite…la presenza dell’acqua avrebbe generato un problema sia di allagamento che di stabilità col quale non si poteva assolutamente convivere. La visita prosegue ed ogni passo è sempre più interessante; ci sono foto originali dell’epoca, strumenti da lavoro di ogni tipo che vanno dagli indumenti dei minatori fino agli attrezzi usati per scavare la roccia alla ricerca del carbone, condutture per l’aria e molto altro. Guardo tutto con stupore mentre la guida preparatissima mi spiega ogni cosa e mi racconta anche aneddoti davvero interessanti. Alla fine del primo giro mi ritrovo di nuovo davanti all’ascensore dove rientro per iniziare la parte migliore. Quello che sembra un trabiccolo a tutti gli effetti comincia ancora la sua discesa per fermarsi dopo poco più di un minuto: sono dove volevo arrivare, al livello “-320”. Questa parte della miniera è senza dubbio la più interessante. Comincio col dire che è molto meno curata della precedente; sembra più una grotta rispetto al “piano di sopra” e l’ambiente è decisamente spettrale. Tra le tante cose che la guida dice e fa, mi indica di restare fermo mentre va verso un interruttore: mi ribadisce che i minatori lavoravano ore ed ore della loro giornata in assenza dell’elettricità, ma non ho potuto capire davvero il senso delle sue parole fino a quando ha premuto quel tasto; ha spento le lampadine per 10-15 interminabili secondi: mi sono trovato in un tunnel a 320 metri di profondità completamente al buio ed i miei occhi non sono in grado di vedere ad un palmo dal naso. E’ una sensazione indescrivibile pensare come si possa lavorare in quelle condizioni, mentre oggi la legge dice che un videoterminalista ha diritto a 15 minuti di pausa ogni due ore passate davanti al computer. Nel caso dei minatori che hanno operato dentro la miniera, la parola “diritto” neanche esisteva. Riaccese le luci, il giro prosegue. E’ la volta non solo di ascoltare come funzionavano i macchinari, ma proprio di vederli in funzione. Non me l’aspettavo proprio una cosa del genere: in diverse sale (o meglio grotte…) sono ancora presenti i marchingegni dell’epoca e la guida, una per una, le mette tutte in funzione dopo avermi messo a distanza di sicurezza in ogni situazione. Mi scuso con chi legge, ma non essendo del mestiere non so descrivere bene a parole che cosa quegli aggeggi facessero; so solo che non avrei mai pensato di vedere agire quelle macchine, di sentirne i rumori ed il frastuono poichè stavano funzionando in un ambiente totalmente chiuso. Non volevo più andare via: era come un macabro luna park in cui, purtroppo, tantissima gente aveva perso la vita lavorando: fughe improvvise di gas, cedimenti dei cunicoli, errori umani che avevano fatto finire le persone a contatto con i macchinari ecc sono tutti eventi fatali; giunto alla fine del giro, vengo fatto salire su un “trenino” originale ancora oggi funzionante che veniva usato per il trasporto del carbone da un punto all’altro della miniera per essere poi “spedito” in superficie: oggi viene adoperato per risparmiare ai turisti qualche passo all’interno dell’ultimo cunicolo del livello “-320″. Ultima cosa: in una delle stanze/grotte, la guida mi ha invitato a grattare la parete: l’ho fatto ed ho visto che era clamorosmamente friabile; con un misero sforzo ho staccato un pezzetto di carbone che ancora oggi conservo gelosamente. Mi è venuto spontaneo di fargli una domanda: ” quello che c’è sopra di noi sono 320 metri di puro carbone o c’è dell’altro?”. Mi viene risposto che di carbone ce n’è tanto in quella miniera, ma è a strati alternati con solida roccia. Mi ha rassicurato,
perchè per qualsiasi legge della fisica, quella “cosa friabile” che poco prima avevo statccato con le mie dita non avrebbe potuto sorreggere da sola tutto ciò che esiste sopra. Senza la presenza di tantissimi metri cubi di roccia sarebbe sprofondato tutto in un baleno. Davanti a me di nuovo la porta dell’ascensore; vi entro e questa volta inizia la risalita che dopo pochi minuti raggiunge il piano strada. Quell’avventura è finita, ma ne avrò sempre un indelebile ricordo. In fase di prenotazione credevo fosse interessante, mentre alla fine ha superato in maniera folle le mie aspettative. Ringrazio tantissimo la guida per le splendide due ore passate nei cunicoli della miniera di carbone e ritorno nell’ufficio per riconsegnare il copricapo e salutare il receptionist: mi viene un sorriso pazzesco quando entro li dentro perchè vedo un’intera orda di bambini di massimo 10 anni di età che stavano scalpitando (e urlando come solo loro sanno fare) per partire con la visita delle 11:00. Tra me e me penso che mi è andata davvero bene; ero solo a gustare quel giro e quella condizione me lo ha fatto vivere in maniera ottimale; 20 o più bambini in quelle stanze di roccia e carbone avrebbero rovinato l’atmosfera al 1000 %. Continuando a sorridere per la felicità di non essere incappato in quel gruppo, saluto e torno alla macchina. A metà mattinata, in perfetto orario, metto in moto e parto per completare la giornata. Prima destinazione delle due in programma: il Castello di Bedzin.
La strada non è molto lunga ed arrivo presto al bivio per la piccola cittadina; stranamente però in quel tratto il traffico è abbastanza sostenuto. Chissà poi perchè…Faccio presto a trovare il castello, davvero molto ben indicato. Appena parcheggiata la macchina, scendo per ammirare e fotografare quella costruzione; è un tipico castello locale molto ben conservato posto sulla sommità di una collinetta.
La neve che si trova per terra ed il cielo azzurro che lo sovrasta rende tutto più fiabesco. E’ possibile effettuare una visita alle sale interne, ma non avevo letto di particolari cose da vedere, per cui mi limito ad osservare dall’esterno da varie angolazioni. Quella tappa è stata pensata come una toccata e fuga, una piccola deviazione culturale prima di raggiungere la vera mèta del pomeriggio: Il santuazio di Czestochowa.
Quando arrivo nella cittadina polacca è ora di pranzo; esattamente all’uscita della strada principale in direzione centro c’è un bel McDonald che mi aspetta. Come sempre accade nei paesi dell’Est Europa, i prezzi sono parecchio inferiori a quelli italiani. Si può dire che con quello che si paga un menù da noi se ne possono prendere forse non due in Polonia, ma quasi. A stomaco pieno riparto: mancano meno di 2 km al Santuario della Madonna Nera, luogo di grandissima importanza a livello Europeo per i pellegrini cristiani provenienti da ogni paese del continente. Trovo parcheggio agevolmente non troppo lontano dall’obiettivo; per raggiungerlo ho due opzioni: passare lungo il marciapiede della strada asfaltata da dove sono arrivato oppure attraversare un parco completamente innevato. Qui, rispetto alla zona di Katowice, di neve ne era scesa molta di più durante la notte. Ovviamente opto per il parco e mi rilasso a camminare a ritmo lento in quel paesaggio tutto colorato di candido bianco. Passo dopo passo vedo avvicinarsi sempre di più il Santuario.
Entro dall’ingresso principale e già vedo parecchia gente (niente al confronto di quando sono organizzate giornate particolari o ricorrenze); è da poco passato Natale, ci sono ancora alcuni addobbi molto semplici che non stonano affatto con l’ambiente circostante. Prima del complesso ecclesiastico vero e proprio vedo una specie di piccolo zoo allestito probabilmente in occasione delle feste che sarebbe stato presto smantellato. Ci faccio una passeggiata e trovo animali da fattoria come conigli, galline, una piccola mucca, un lama (!?!) ed una simpatica famiglia di pecorelle intenta a belare abbastanza spesso. Ancora prima di fare ingresso nel Santuario leggo un cartello che, in polacco ed in inglese, recita “sala del tesoro”. Decido di andarci, anche se sono da sempre contrario al fatto che qualsiasi forma di religione mondiale possegga “un tesoro”. Credo che stoni molto con i principi che vogliono essere insegnati, e questa è una delle ragioni per cui non sono credente. Purtroppo gli uomini sanno rovinare tutto ciò con cui hanno a che fare, anche quello che è decisamente più grande di loro. Esco dalla sala non proprio soddisfatto e mi dirigo, dopo un minuzioso giro nei piazzali antistanti, verso il gigantesco portone di ingresso. Ciò che ho davanti ai miei occhi è davvero particolare. Non oso definirlo “spettacolo” per non mancare di rispetto a nessuno, ma è qualcosa di molto simile a quello. Più cammino per la navata centrale e più che capisco il perchè questo luogo sia così importante; a dire la verità riesce a trasmettere persino a me un senso di sicurezza. Contemporaneamente, da una porta alla sinistra rispetto alla mia posizione, sento la voce di un sacerdote che sta dicendo Messa. Proseguendo in silenzio mi dirigo da quella parte perchè voglio vedere anche quella sala provando a non disturbare i presenti. Fortunatamente ci riesco senza inciampare da nessuna parte (un classico in questi casi); decido che è davvero tutto e percorro a ritroso la strada che avevo fatto in precedenza per arrivare. E’ ancora presto, per cui prendo la macchina e parcheggio in centro per fare una passeggiata in città. A parte una bella piazza con un palazzo molto gradevole da ammirare ed una chiesa dalla parte opposta, Czestochowa “centro urbano” è una piccola delusione.
Arrivo a dire che, se non ci fosse il Santuario, non sarebbe un posto degno di una visita. Per di più sono circa le 18:00 di sabato pomeriggio e da queste parti i negozi sono tutti già chiusi. C’è solo un centro commerciale aperto ma di sicuro non sono arrivato fino in Polonia per vedere le stesse marche (o quasi) che trovo quotidianamente in Italia. Cavolo! davanti a me c’è più di un’ora di strada ed in hotel mi aspetta il centro benessere che chiude alle 21:30!!! Non ci penso su due volte: il mio giro si è concluso nella maniera migliore possibile, sono riuscito a vedere tutto…ed ho il freddo del “sottozero” fin dentro le ossa. Metto la prima ed eseguo l’input che la parte oziosa del mio cervello mi ha inviato. L’area wellness è posta al piano “-1” dell’albergo (anche questa “sottozero”…dico fra me e me). Mi metto il costume nello spogliatoio e per prima cosa faccio un tuffo in piscina. La temperatura dell’acqua è quella dell’ambiente in cui mi trovo, per cui faccio un bel bagno ristoratore ma niente di speciale. Lì accanto viene il bello: sauna (come direbbe il buon rag. Fantozzi “a 3.000 gradiiiiii!”) e piscina idromassaggio. In sauna reggo pochi minuti ed esco più sudato che dopo una maratona; ovviamente accanto c’è una doccia per sciacquarsi e la uso per poi provare l’idromassaggio. C’è già una persona ma è grande abbastanza ed ha più sedili. Quello è davvero rilassante, ma col passare del tempo altri ospiti hanno avuto la mia stessa idea e, uno dopo l’altro, rendono l’idromassaggio una scatola di sardine piena d’acqua. Arrivati a stare uno appiccicato all’altro senza molto ritegno da parte degli ultimi arrivati, decido che è ora di uscire. Vado a comprare qualcosa per la cena al centro commerciale di zona e poi mi dedico alla wifi per il resto della serata. Quella bella giornata è giunta al termine, ma quella successiva sarebbe stata ancora più ricca.
10 gennaio. Qui è d’obbligo una considerazione: la maggior parte delle persone (direi il 99% , ma forse mi sono tenuto basso) va a vedere Cracovia e poi, da lì, raggiunge il campo di concentramento di Auschwitz con una “gita organizzata” che non costa meno di 25-30 euro quando non viene fregata. Questo perchè Oswieçim (così si chiamava e si chiama oggi in polacco quel luogo prima che i tedeschi se ne impossessassero cambiandone anche il nome) dista 70km da Cracovia ed è raggiungibile altrimenti solo con un autobus pubblico che non tutti sono disposti a cercare e prendere; ma nessuno nota che Oswieçim dista da Katowice solo 35km e che è quella la città con scalo aeroportuale più comoda e vicina. Inoltre, la visita guidata in italiano prenotata comodamente on-line da casa costa, al cambio, neanche 10 euro a persona. Io ho la macchina (tra l’altro pagata 45 euro totali per i 3 giorni di permanenza) e mi muovo facilmente, per cui il gioco è fatto. Ma su questo tornerò tra poco. Prima di quella tappa ho occupato la mattinata visitando un’altra località carina della zona chiamata Pszczyna ed è corretto darle la precedenza.
Agli occhi di tutti è un semplice paese come ce ne sono tanti in giro, ed infatti le strade di ingresso sono anonime e piene di magazzini ed ingrossi; seguendo verso il centro la situazione migliora. In terra il ghiaccio è il padrone incontrastato: se le strade polacche sono come sempre ben tenute, pulite e sgombre da fenomeni atmosferici, lo stesso non vale per marciapiedi e zone pedonali; sceso dalla macchina inizio letteralmente a sciare anzichè a camminare. Il problema vero è che ho delle comuni scarpe e quindi rischio di cadere in continuazione, a volte anche malamente con pericolo di infortuni incorporato. Ricordo solo di essere scivolato per almeno un paio di metri in una occasione e di aver immaginato davvero il peggio, ma fortunatamente non è andata così. Raggiungo, piano piano, la zona di mio interesse: la vita del piccolo centro si svolge tutta intorno alla bella piazza principale, contornata da palazzi piacevoli da guardare e ben tenuti; ancora pochi passi nella direzione studiata da programma e finalmente trovo il punto di maggiore intresse: il castello. La costruzione di per se è davvero gradevole, anche se sembra più un palazzo di grandi dimensioni. A gennaio poi, i 48 ettari di parco che lo circondano sono totalmente coperti di neve rendendo lo scenario ancora più fiabesco e suggestivo.
Ma avevo un dubbio: nelle foto che avevo visto su internet c’era un bel laghetto proprio di fronte al castello. Mi giro in tutte le direzioni ma non lo vedo proprio. Probabilmente ho sbagliato lato…eppure stavo guardando la stessa facciata vista on-line settimane prima. Mi giro su me stesso e guardo l’orizzonte notando una lieve differenza nel colore della neve di li a poco; mi avvicino con cautela passo dopo passo fino a quando capisco la situazione: il laghetto del castello è completamente ghiacciato! Non una sola goccia d’acqua si riesce a vedere, ma solo un lastrone unico di ghiaccio che non si capisce quanto sia esteso. Proseguo la passeggiata e salgo sopra ad un ponticello dal quale mi affaccio: sotto c’era solo altro ghiaccio e così via ovunque io avessi camminato. Suggestiva, ma allo stesso tempo raccapricciante (tipo inizio di un film dell’orrore), un’immagine in cui, proprio su quella che dovrebbe essere la superficie del lago, vedo delle impronte di scarpe che “corrono” verso il suo centro per poi svanire nella foschia. Spero che chiunque le abbia lasciate sia arrivato dall’altra parte sano e salvo. Perso in quell’incanto bianco ed anche un po’ intorpidito dal freddo non mi accordo dell’orario: manca solo un’ora alla visita prenotata ai campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau e non volevo assolutamente mancare l’appuntamento. Premetto che avevo già visitato quel luogo di morte e dannazione umana circa 3 anni e mezzo prima; era però ad inizio ottobre ed in Polonia era appena iniziato l’autunno; la temperatura era mite e si girava tranquillamente con le maniche corte durante le ore di luce. Sono tornato stavolta perchè la mia volontà è capire davvero le pene e la sofferenza che quella povera gente aveva dovuto subire in condizioni meteo proibitive. In Polonia, gennaio non è proprio come inizio ottobre. Oggi c’è la neve (anche se non moltissima), fa freddo (circa -2 gradi), ma non abbastanza: parlando con la guida ho saputo che la settimana precedente alla mia visita si sono toccati i -16 gradi e che per la successiva le previsioni danno punte fino a -20 gradi; avevo comunque indovinato una settimana “mite” nel gelido inverno del luogo anche se per questa occasione avrei preferito il peggio.
Arrivo in orario, ritiro il biglietto prenotato on-line, attendo l’inizio della visita e mi metto le cuffie che servono per far arrivare direttamente la spiegazione della guida che, ovviamente, non avrebbe potuto urlare in quel luogo di memoria e di morte. Si entra nel campo di Auschwitz-1 passando per il macabro cancello di ferro con la scritta “Arbeit Macht Frei”, cioè “il lavoro rende liberi”.
Girando per i moltissimi padiglioni in cui centinaia di migliaia di persone hanno vissuto, hanno sofferto, sono state umiliate, bruciate, torturate, impiccate, fucilate, fatte morire di fame, freddo, stenti e chi più ne ha più ne metta, si ascoltano storie raccapriccianti realmente esistite e si vedono con i propri occhi le testimonianze di ciò che non è stato bruciato: scarpe, vestiti, uniformi, foto, oggetti di uso comune, pentole, valige e capelli. Si, proprio così: quintali di capelli umani che venivano usati per realizzare stoffe o cose simili.
Una testimonianza della follia umana che si ha quando un intero popolo segue le volontà di un unica persona, per di più un pazzo criminale. So che bisognava esserci per capire cosa davvero succede nella mente delle persone in determinate situazioni, ma la mia domanda è sempre stata “perchè io (soldato, cittadino comune, o con qualsiasi altro ruolo nella società) mi devo abbassare ad essere comandato da un solo soggetto ? Che cosa ha lui più di me per impartire ordini a tutta una nazione ? Che influenza ha sulla mia mente per impormi di andare in guerra per lui o per fare ciò che lui vuole ? Perchè i soldati tedeschi si sono messi ad obbedire ai suoi ordini anzichè fucilarlo alle prime avvisaglie di ciò che sarebbe potuto succedere ? Il potere è la peggiore delle cose che possano esistere ed una sola persona non deve assolutamente gestirlo. Già con i governi ed i parlamenti che oggi ci sembrano tanto giusti e democratici non si può in alcun modo accontentare tutti (e lo dimostrano gli scioperi continui, le persone che si lamentano quotidianamente e tutto il resto); figuriamoci se tutte le decisioni riguardanti milioni di persone venissero prese da uno solo. Questo succede in casi simili: si va alla rovina, si getta al vento ciò che millenni di storia ed evoluzione hanno raggiunto e si arriva ad essere molto molto peggio delle bestie. Dopo aver visto cose come il muro della morte, i pali per le impiccagioni, i forni crematori, il filo spinato e le torrette dei guardiani ci spostiamo al campo di concentramento Auschwitz-2 “Birkeanau”.
Qui il panorama cambia totalmente: si tratta davvero di un “campo” a tutti gli effetti dove i prigionieri di Auschwitz-1 costruirono con le proprie mani tutte le “baracche” in muratura ed in legno presenti. Erano delle specie di stalle senza riscaldamento, senza alcun comfort e fatte solo per umiliare l’essere umano che era costretto a vivere al loro interno. Particolare attenzione l’ho data alla baracca con i “bagni” (se così si possono chiamare): una lunga e stretta tavola con tantissimi buchi circolari a distanza di pochi centimetri l’uno dall’altro; i prigionieri dovevano usare uno di quei buchi per due volte al giorno non quando ne avevano bisogno, bensì ad orari prefissati; dovevano andare al bagno a comando. E se avessero avuto bisogno di tornarci…avrebbero dovuto farsela addosso. In più, ovviamente, in qualche modo il fondo di quei buchi doveva essere pulito. Per questo alcuni prigionieri venivano scelti per svuotare il tutto senza strumenti specifici. Era la follia della follia.
In quel secondo campo c’è la conosciutissima ferrovia in cui i prigionieri che arrivavano venivano divisi tra uomini donne e bambini e, nella maggior parte dei casi, spediti direttamente all morte nei forni crematori che si trovano poco più avanti del capolinea del binario. E coloro che sopravvivevano dovevano farlo tra gli stenti, fino a perdere più della metà del peso che avevano al momento del loro ingresso.
Dopo circa 3 ore e mezzo di questa orribile intensità, la visita è terminata. Un breve saluto alla guida, anche stavolta molto preparata e partecipativa, e via verso l’albergo. Come si dice in questi casi, la vita di chi resta deve continuare. L’importante però è vedere, capire, ricordare…per evitare di ripetere.
Questa è una visita che, se ne avessi il potere, obbligherei a tutte le scuole d’Italia, magari al quinto anno delle superiori invece di vedere gruppi di scolaresche che fanno giochi idioti tenendo un compagno per i piedi fuori dal balcone o che si mescolano in improbabili “ammucchiate”. Ma tanto questo non accadrà mai. Torno anche quella sera al centro fitness e faccio il solito giro per ripristinare i miei arti dopo quella intensa ed estenuante giornata: piscina, sauna, doccia ed idromassaggio. Poi cena e wifi a raffica prima di addormentarmi.
11 gennaio: ultimo giorno (purtroppo) nell’Alta Slesia. Mi sveglio presto come d’abitudine, preparo i bagagli e lascio la stanza. Il programma di oggi non prevede grandi escursioni poichè nel pomeriggio ci sarebbe stato il volo di rientro per Bologna con tutto ciò che ne consegue: raggiungimento dell’aeroporto, consegna e controllo della macchina, controlli di sicurezza ed imbarco. Non potevo in alcun modo rischiare di fare tardi ed avrei dovuto partire per tempo calcolando strade innevate e possibile traffico. Dopo tutti i giri fatti…che cosa mancava ? La cosa più ovvia: vedere Katowice. Lo ammetto: il programma “originale” teneva conto di ciò che avevo letto su internet e di quello che mi dicevano i conoscenti. Dato che a Katowice non ci doveva essere nulla di nulla avevo organizzato di passare alcune ore all’interno di un parco acquatico coperto, come tanti ce ne sono in centro e nord Europa. Tutto era pronto, tranne una cosa: nel misero bagaglio a mano consentito dalla Wizz Air non ero riuscito a far entrare nè l’accappatoio e nè un eventuale telo da bagno, elemento fondamentale per poter frequentare certi luoghi (non avrei potuto certo asciugarmi al sole…); ma alla fine dei giochi è stato meglio così. Katowice, pur avendo effettivamente poco da vedere, è una città sufficientemente piacevole dove fare una passeggiata di qualche ora. Degne di nota ci sono:
- Lo Spodek, cioè una costruzione che da fuori appare come un enorme disco volante; è usata pr gli eventi sportivi e culturali della città.
- Cattedrale
- Silesian Theatre
- Silesian Museum
- Chiesa Franciszka Scigaly
- Chiesa gotica di Saint Mary
- Palazzo Vescovile
- Monumento della Slesia
Piccolo capitolo a parte merita il quartieri di Nikiszowiec. Fu costruito tra il 1908 ed il 1918 per essere destinato alle famiglie dei minatori che lavoravano nella vicina miniera di carbone. Totalmente edificato con mattoni di colore rosso che rendono l’intero abitato molto particolare e adatto allo scopo per cui è stato pensato, ha di tutto al suo intrerno: negozi, scuole, chiesa, palazzi direzionali della miniera, carcere e chi più ne ha più ne metta. Praticamente chi vi abitava non aveva alcuna necessità primaria di uscirne per motivi di primaria necessità. Il paesaggio è surreale e sembra che il tempo non sia quasi mai passato dalla sua costruzione. Particolarità: nella mattina in cui ci sono stato non ho visto nessuno che avrebbe potuto sembrare un non polacco. Purtroppo la disinformazione è una brutta bestia…
L’avventura in Alta Slesia è finita e la zona è stata promossa a pieni voti, almeno secondo il mio giudizio e le mie aspettative. E’ bastato studiare un pochino ed avere un minimo di curiosità per ciò che questi luoghi possono offrire per entusiasmarsi in maniera sincera. Magari è stato anche l’effetto mentale di un luogo dal quale ci si aspetta meno rispetto a molti altri e che, con poco, stupisce. La verità è che punti di interesse ce ne sono realmente e li ho descritti uno per uno, i prezzi sono bassi anche per dormire (un 4 stelle con centro benessere gratuito costa 20 euro al giorno ed una macchina a noleggio l’ho pagata 15 euro al giorno) e spessissimo si arriva qui con pochi euro di volo se si riesce a prenotare in momenti strategici. Spero che quanto riportato qui sopra possa essere utile per regalare un po’ di sano turismo in un luogo d’Europa che vive, per ora, quasi solo di lavoro e produzione.
NOTA FINALE, ovvero come non regalare all’Aerobus di Bologna ben 6 euro a persona a tratta per andare dalla stazione centrale fino all’aeroporto Guglielmo Marconi (se si viaggia in due persone sono ben 24 euro per un percorso a dir poco ridicolo): continua la mia personale battaglia contro i veri e propri furti legalizzati che in Italia ed in molti altri paesi riguardano il trasporto dal centro città fino all’aeroporto più vicino. Eclatanti sono i casi di Roma (per esempio) in cui il treno “Leonardo Express” si paga 14 euro a tratta oppure il taxi che da Ciampino prende 30 euro e da Fiumicino ben 48 euro (con questi soldi ci avrei fatto 5 voli Bologna-Katowice, 3 andate e 2 ritorni. Vergogna!!!). Personalmente dò i soldi che guadagno con fatica solo ai vari servizi come Terravision e similari (in mancanza di altro) che con pochi euro eseguono la tratta con regolare e capillare frequenza. Tornando a Bologna, la città ha un biglietto integrato Treno/Autobus che permette di prendere qualsiasi mezzo all’interno del comune, compresi i treni FS, al prezzo di € 1,80 a tratta. Quindi, dalla stazione centrale si prende un treno FS che ferma alla stazione di Borgo Panigale (la prima fermata in tale direzione, per cui pochissimi minuti di percorrenza); scesi li, si salgono le scale e si va sul cavalcavia alla fermata del bus 54 che porta direttamente dentro l’aeroporto. Con 3,60 euro al posto di 12 euro si va e si torna dal “Guglielmo Marconi” senza particolari problemi. Attenzione: il bus n. 54 passa una volta ogni ora, per cui occorre informarsi sul sito del trasporto pubblico di Bologna per non perderlo e dover aspettare l’ora successiva. Ovviamente tutto questo va fatto quando non c’è urgenza di raggiungere l’aeroporto, cioè occorre, come sempre, preparsi per tempo.